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2018
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The folds of time
Angela Madesani
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In two exhibitions by Andi Kacziba, one at the exhibition space at PwC Milan and the other at the Galleria Raffaella De Chirico in Turin, it may appear the artist lives in a fairytale world, in the secretive meanderings of some of the tales that have irreparably marked our childhood imaginations: textures and spinning wheels, as in Sleeping Beauty, "Bad Queens" who won't accept they're growing old, magic mirrors that steal the imagination, as in Snow White, and long threads that help us find the right pathway.
That's the world inhabited by this Hungarian artist - who has lived in Italy for many years - a quest for an existential matrix. The subject of her works is time, not just time in the broadest sense, but the times of life, above all else.
We can affirm, without any fear of denial that her artistic research begins with her biography. The works shown here are a testimony to it, and irrefutable proof. At 18, Andi started working as a model, and a make-up artist told her: "One day, your face will be priceless".
Now, many years later, that somewhat prophetic phrase often returns to her. Despite the great battles of feminism, and the undoubted social on, it still appears that one of most urgent problems of our time, especially for women, is to remain eternally youthful: we undergo cosmetic surgery on every area of the body, injections of botulism and other magical substances, total epilations and anything that might help. The dream is to live up to be 100 years old, and maybe even longer, with the body and face of a teenager.
Is beauty more important than everything else? It certainly seems to be. And we women, in spite of ourselves, are still objects that cannot grow old, get fatter or turn grey. The world of appearance triumphs. It seems like we're living on the set of The Great Beauty by Paolo Sorrentino. Emptiness and stupidity triumph. Society puts us through strenuous tests.
So Kacziba, now just over forty years old, has decided to fill in the wrinkles with a special preparation of vinavil and gold. Over time, as wrinkles get deeper, your body becomes more and more precious.
A wrinkle is a baroque fold: so said Gilles Deleuze who in his book on that topic also mentions the Franco-Hungarian painter, Simon Hantaï, a fellow countryman of Andi Kacziba. One of life's strange cases. After all, our redundant and vacuous times call, precisely, mutatis mutandis, for a certain Baroque.
A wrinkle is the representation of the world, to infinity. Body folds, wrinkles, signs of age, experience, which the artist fills with gold, the colour used in the Central European baroque tradition.
So, she's been photographed with her precious wrinkles. A series of Polaroids were created, which all offer her face in the same front-facing position: repetitions and differences, to paraphrase the French philosopher himself: «The wrinkles I've accumulated, that tell people about my life, are golden ". That gluey gold effect used in some works, is gently torn from her face, using a mask, like a fresco, and then placed onto a glass. It's a track of time, a footprint, a footprint that's freed from the image.
In Turin a series of oval, round and three-compartment mirrors were on show. Those who mirror themselves in the right measure will have those experiences mirrored in their faces, in the wrinkles of Kacziba, which perform a game of removals and substitutions, making the golden wrinkles appear in object that serves as a symbol of vanity par excellence, but also a symbol of fear. To make the mirrors she used antique glass, which was damaged and scratched here and there. A parallelism between the object and its contents.
The mirror also reminds us of the omnipresent selfies, a phenomenon that's turned into the burden and delight of our times: I photograph myself - therefore I am. A means for us to affirming ourselves, and our presence at certain places and situations.
In the PwC Milan Exhibition Space, Andi's panels were in front of large mirrors that reflected the works. They were not part of the artworks, merely items that were connected to the exhibits, which, however, became conceptually load-bearing.
Opposite them were her enormous woven threads on wooden frames. The technique used was that of tapestry. The result was wrinkled skin, hardened by time, perhaps marked by the sun, that fascinate by shape and material far more than by colour.
In each of her works, whether photographic portraits, wrinkles on a glass or in a mirror, she has woven the threads of her experiences and life, which day after day are affirmed by the precious, even if rather annoying, signs of time passing.
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Mirrors and Highlights - IT
Filippo Mollea Ceirano
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Nelle opere di Andi Kacziba si condensano le sue peculiari esperienze di vita e assieme si manifesta la sua visione del mondo, verso cui non manca di prendere posizione con la sicurezza di chi non intende a nessun costo piegarsi o tirarsi indietro.
Indicativo è, al riguardo, il suo particolare approccio alla femminilità: non accetta il ruolo di genere disegnato dalla cultura e dalla società contemporanea, ma neppure le rotture ideologiche che negano ogni differenza. La sua ricerca è piuttosto volta a mostrare come anche le caratteristiche, le attività, le azioni – finanche le alienazioni – storicamente destinate alla ‘donna’ possono costituire la base su cui costruire un percorso di approfondimento, di sviluppo, di crescita. L’artista, il suo corpo e il suo ‘fare’ sono il soggetto delle sue opere e, in ultima analisi, il termine di paragone di ogni cosa; è lei il punto di partenza della sua indagine, nel posto che le viene assegnato nel mondo che la circonda, con il suo modo di affrontarlo e di farci i conti. Un modo fatto di delicatezza e di intransigenza, di grazia e di determinazione.
Questi aspetti vengono approfonditi e a fondo indagati nei recenti lavori, che costituiscono il nucleo fondamentale della mostra Mirrors and Highlights, a Palazzo Borgata, Rocca Grimalda (AL), dal 21 al 23 settembre 2018. Il tema centrale è un’attenta analisi condotta sull’aspetto fisico e sul suo ruolo nel contesto sociale: il volto dell’artista stessa, le sue trasformazioni e il suo ‘degenerarsi’ nel tempo indagano e denunciano la posizione della donna che la società contemporanea vorrebbe ridotta al ruolo di merce deperibile. Esso viene ritratto, scomposto, ripreso, evidenziato attraverso una varia declinazione di mezzi e di significati tesi a sottolineare il contrasto tra la persona e la sua immagine, che nel mondo contemporaneo si tende sempre più a separare l’una dall’altra. La persona finisce infine con l’essere svilita, quasi offesa dall’immagine che la società le vorrebbe imporre.
Andi Kacziba si riallaccia al suo passato, alla sua esperienza nel mondo della moda, e usa la creatività, la capacità dell’artista di inventare e generare immagini, per criticare questi dispositivi mortificanti. Aveva spiegato, presentando la sua opera Santa Chiara esposta alla mostra collettiva «OLTRE», tenutasi nel marzo del 2016 al Museo Civico Pier Alessandro Garda di Ivrea: «una modella soddisfa un canone estetico imposto da altri; una donna di cultura, un’artista ha il privilegio unico di contribuire a creare un proprio canone, non solo estetico». In queste nuove ricerche i canoni correnti dell’immagine femminile vengono drasticamente rovesciati attraverso una serie di interventi che sottolineano, rivendicandone l’importanza e il valore effettivo, le imperfezioni, i segni del tempo, le rughe. Così nella serie delle ‘polaroid’ sul viso, ritratto frontalmente, in posizione statica e con espressione indifferente, i segni del tempo (le rughe, appunto) invece di essere rimosse o attenuate vengono enfatizzate, riprese con segni realizzati in oro zecchino. Le stesse rughe diventano materia negli arazzi, serie di lavori intitolati Bivium e realizzati con tessiture di canapa montate su telai di legno, in modo da creare una superfice irregolare e disomogenea che richiama la pelle raggrinzita e deteriorata. Nelle opere Vultus elementi del viso dell’artista sono riprodotti attraverso impronte di resina, che creano delle maschere in cui ancora i segni e le imperfezioni vengono evidenziati con l’uso dell’oro. Questi stessi segni in oro, nelle opere Speculum, sono anche riportati in vecchi specchi, sagomati e composti, in cui l’osservatore si può riflettere sovrapponendo la propria immagine ai dettagli e alle imperfezioni ‘dorate’ del volto dell’artista.
I lavori esposti sono il risultato del recente sviluppo di linee di ricerca già sperimentate da tempo, in cui elementi e significati si integrano e si rincorrono su molteplici piani. Prima di tutto l’oro, da sempre parametro di riferimento del valore economico, elemento e simbolo dello scambio di mercato, il cui utilizzo si lega al passato, quando a Andi Kacziba, allora giovane modella in forte ascesa professionale, venne detto che il suo volto, appunto, ‘valeva oro’: traendo spunto da questo episodio, il prezioso metallo viene ora utilizzato per negare l’importanza dell’immagine astratta, inorganica, separata dalla vita, e rivendicare invece le modificazioni prodotte dal trascorrere del tempo, segno di una trasformazione della persona, essere dinamico e vitale. Così anche per l’uso di prodotti della tessitura, fin dall’antichità simbolo del lavoro femminile (dal mito di Aracne all’universale fantastico di Penelope). Per arrivare alle molteplici valenze dello specchio, del riflesso dell’immagine, strumento e parametro della vanità ed anche giudice impietoso della percezione del proprio corpo e del proprio essere, che in queste opere diventa strumento di indagine della persona e, assieme, sovvertimento e negazione della gerarchia dei valori. D’altro canto, per giocare un po’ con le parole, il termine latino speculum, ‘specchio’, nel medioevo designa un trattato enciclopedico, mentre ai giorni nostri è un apparecchio medico per osservare l’interno anatomico delle parti intime; i molti derivati (specchiato, speculare, speculazione) possono invece assumere significati che rimandano alla riflessione dell’immagine ma anche all’esame, all’analisi cognitiva, fino alla operazione economica volta a lucrare sull’aumento del valore di scambio. Lo stesso vale per i termini derivati dal latino reflectere, ‘ripiegare, volgere indietro’, da cui gli italiani riflettere, riflessione ecc., con cui si intendono tanto il rinvio di una immagine quanto la ponderata analisi di fatti o idee.
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Mirrors and Highlights - EN
Filippo Mollea Ceirano
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In Andi Kacziba’s works are condensed her peculiar life experiences and her world views, towards which she never misses the chance to take a stance with the self-confidence of someone who never gives in nor backs down. In this regard her distinctive approach to femininity is significant: she does not accept the gender role designed by contemporary society and culture, nor any ideological denial of differences. Her work rather aims to show how historically “feminine” features, activities, actions – even alienations – can become the basis for development and growth.
The artist, her body and her “action” are the subject of her art pieces, and ultimately the terms of comparison for everything; she is the starting point of her study, in the place she’s been given, in the world surrounding her, with her own way of facing it and dealing with it. A way of gentleness and strictness at the same time, a way of both gracefulness and resolution. These aspects are studied in depth in her recent works, forming the core of the Mirrors and Highlights exhibition at Palazzo Borgata in Rocca Grimalda (Alessandria, Italy), held from September 21st to 23rd 2018. The central subject is a thorough analysis of physical appearance and its role in our society. The artist’s own face, its transformations and her “degeneration” over time examine and denounce the position of women in a society that wants their role reduced to that of perishable goods. It is depicted, broken up, painted again and highlighted through various media and meanings in order to emphasize the contrast between a person and his/her image which are, in the modern world, increasingly separated from each other. Eventually the person ends up being degraded, almost offended by the image enforced by society.
Andi Kacziba tries to reconnect to her past, to her experiences in the World of Fashion. Using her creativity – the artist’s ability to come up with new images – she criticizes these mortifying mechanisms. When introducing her Santa Chiara creation at “OLTRE” group exhibition held in March 2016 at the Museo Civico Pier Alessandro Garda in Ivrea, she explained that, “a model must satisfy a standard of beauty set by others; an educated woman, an artist, has the unique opportunity to create her own standards, and not just of beauty”. In these new researches the current standards of women’s image are drastically capsized through a series of works highlighting imperfections, signs of time, wrinkles, and by claiming their real importance and value. Thus, in the “Polaroid” series, on the frontal picture of an emotionless static face, the signs of time (wrinkles, precisely) are emphasized, repainted with pure gold lines instead of being removed or softened. Those wrinkles become a material in a series of works called “Bivium”, tapestries made of hemp weavings mounted on wooden frames, thus creating a rough, uneven surface that calls to mind shrivelled and blemished skin. In the “Vultus” works, the artist replicates parts of her face with resin impressions, creating masks where, again, marks and imperfections are stressed through the use of gold. In the “Speculum” creations, those same gold marks are transferred, reshaped and put together on old mirrors, and the observer can see his/her own reflected image with the overlaid details and the “golden” imperfections of the artist’s face. The works exhibited are a recent result of already experimented lines of research, in which components and meanings complement and chase each other at various levels. First of all gold, which has always been a benchmark of economic value, a symbol and component of market exchange. Its use is rooted in the past, when Andi Kacziba, at the time a young increasingly successful model, was once told that her face “was gold”: inspired by that event, she now uses that precious metal to reject the importance of an image that is abstract, inorganic and separate from life, claiming instead
the changes caused by the passage of time, the signs of transformation of a person as a dynamic and vital being. Similarly, the use of tapestry has been a symbol of female labour since the ancient times, from the myth of Arachne to Penelope’s idiomatic web. The same can be said for the several significances of the mirror and the reflected image, instrument and criteria of vanity as well as harsh judge of one’s body perception and self-awareness. In these works the mirror becomes a tool for both studying self-image and subverting and rejecting the hierarchy of values.
On the other hand, to play on words, the Latin word speculum, mirror, or “specchio” in Italian, in medieval times meant “encyclopaedic treatise”, while nowadays it is a medical device employed to examine internal genitals; many derivatives (specular, speculation, speculative) may have a meaning related to the reflection of images, but others also to observation, cognitive analysis, and even to the economic operations aimed at profiting from increases in market exchange value. The same applies to words deriving from reflectere, “fold up, turn back”, like reflect, reflection, related both to mirrored images and weighted analysis of facts and ideas.
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Le pieghe del tempo
Angela Madesani
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Con le due mostre di Andi Kacziba, una allo spazio espositivo PwC Milano e l’altra alla Galleria Raffaella De Chirico di Torino, pare di trovarsi all’interno di un mondo fiabesco, nei meandri più segreti di alcune favole che hanno segnato irrimediabilmente il nostro immaginario infantile: tessiture e arcolai, come ne La bella addormentata, “regine cattive” che non accettano di invecchiare, specchi magici che rubano l’immagine, come in Biancaneve, e lunghe funi che aiutano a ritrovare la retta via.
Quella dell’artista ungherese, che da molti anni vive in Italia, è una ricerca di matrice esistenziale. Soggetto delle sue opere è il tempo, il tempo in senso lato, ma anche il tempo della vita, la sua prima di tutto. Possiamo affermare, senza timore di smentita, che la sua ricerca artistica parte dalla sua biografia. I lavori qui in mostra ne sono una precisa testimonianza, una prova inconfutabile. A 18 anni, Andi inizia a lavorare come modella e una truccatrice le dice: «Un giorno la tua faccia varrà oro».
Oggi, a parecchi anni di distanza, quella frase profetica le torna spesso nelle orecchie. Nonostante le grandi battaglie femministe, gli indubbi avanzamenti sociali, uno dei problemi apparentemente più urgenti del nostro tempo, in particolare per le donne, è quello di rimanere eternamente giovani: ci si sottopone così a chirurgia estetica in tutte le zone del corpo, iniezioni di botulino e altre sostanze magiche, epilazioni totali e a tutto quanto può aiutare. Il sogno è quello di vivere sino a 100 anni e forse più, con un viso e un corpo da adolescente.
La bellezza è più importante di tutto il resto? Pare di sì. E noi donne, nostro malgrado, siamo ancora degli oggetti che non possono invecchiare, ingrassare, ingrigire. Il mondo dell’apparenza trionfa. Pare di vivere sul set de La grande bellezza di Paolo Sorrentino. La vacuità e la stupidità trionfano. La società ci chiede prove faticose.
Così Kacziba, oggi poco più che quarantenne, ha pensato di riempire le sue rughe con uno speciale preparato di vinavil e oro. Con il passare del tempo, con l’aumentare delle rughe, il suo corpo diviene sempre più prezioso.
È la ruga, la piega barocca: così Gilles Deleuze che nel suo libro su quel tema cita anche un pittore franco-ungherese, Simon Hantaï, conterraneo di Andi Kacziba. Strani casi della vita. Del resto il nostro tempo ridondante e vacuo richiama proprio, mutatis mutandis, un certo Barocco. La piega è la rappresentazione del mondo, all’infinito. Piega del corpo, ruga, segno del tempo, esperienza, che l’artista riempie d’oro, il colore della tradizione barocca mitteleuropea.
Quindi con le sue rughe preziose si è fatta fotografare. Sono nate una serie di Polaroid, che propongono il suo volto sempre nella stessa posizione frontale: ripetizione e differenza, parafrasando lo stesso filosofo francese: «Le rughe che ho guadagnato, che raccontano la mia vita sono oro». Quell’oro colloso per talune opere viene strappato delicatamente dal suo volto, attraverso una maschera, come un affresco, per essere posto su un vetro. È la traccia del tempo, orma, impronta priva di immagine.
A Torino sono in mostra una serie di specchi ovali, rotondi, a tre scomparti. Chi si specchia alla giusta misura vivrà l’esperienza di specchiarsi nel volto, nelle rughe di Kacziba, che è riuscita con un gioco di rimozioni e sostituzioni, a fare apparire le pieghe d’oro nell’oggetto simbolo di vanità per eccellenza, ma anche di timore. Per realizzare gli specchi ha utilizzato degli antichi vetri, un po’ imbarcati, talvolta graffiati. Un parallelismo tra l’oggetto e il suo contenuto.
Lo specchio richiama anche l’onnipresente selfie, croce e delizia del nostro tempo: mi fotografo e dunque sono. Un mezzo per affermare se stessi, il proprio essere nei luoghi e nelle situazioni.
Nello Spazio espositivo PwC Milano, sui pannelli Andi ha posto dei grandi specchi in cui si riflettono le opere. Non si tratta di lavori, solo di elementi legati all’allestimento, che, tuttavia, concettualmente diventano portanti.
Di fronte sono suoi grandi lavori di corda posta su telai di legno. La tecnica è quella dell’arazzo. L’esito sono pelli raggrinzite, indurite dal tempo, forse segnate dal sole, ad affascinarla sono la forma, la materia molto più del colore.
In ognuno dei suoi lavori, che si tratti dei ritratti fotografici, delle rughe sul vetro o nello specchio, delle corde tessute c’è lei, con le sue esperienze, il suo vissuto, che giorno dopo giorno si afferma attraverso i preziosi anche se fastidiosi segni del tempo.
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2016
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Andi Kacziba
Maria Fratelli
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Andi Kacziba è al suo secondo incontro con Francesco Messina: nel 2014 espose, in una mostra collettiva, nella prima serie di incontri che animarono lo Studio Museo, l’opera Altare della sterilità accanto alla grande Eva in bronzo del Maestro. Fu quella l’occasione per un confronto sul tema della maternità visto da due epoche e da due artisti molto diversi tra loro, anche nel genere.
Nell’arte il maschile e il femminile non esistono, ma la condizione di vita dell’artista uomo o donna è ancora, purtroppo, diversa. Tanto da indurre Andi Kacziba a porre la questione della violenza sulle donne, ancora oggi argomento di ordinaria cronaca nera, quale tema centrale della sua ricerca espressiva.
Le sue opere esposte nell’abside di San Sisto, prese una per una, conducono lo spettatore in un mondo molto etereo, raffinato, intimo; sono opere concettuali ma non prive di una deliberata artigianalità.
La loro fattura trova nel ricamo e nel cucito gli strumenti con i quali procedere con meticolosa cura alla costruzione di forme: piccoli nidi realizzati con filo e spago, delicate e cangianti ceramiche anch’esse completate con appendici tessute, fazzoletti e stoffe immacolate su cui si annidano protuberanze grezze di corde arrotolate e fissate su se stesse in volute concentriche. Questa artigianalità elegge a strumenti creativi l’ago e il filo, in un lavoro che richiede tempo per far crescere, punto su punto, opere che non sono mai seriali (e qui il confronto va al lavoro delle donne afgane che tessevano per Boetti le grandi tele con gli alfabeti) ma volutamente e pazientemente oggetti unici autoprodotti. La ricerca concettuale di Boetti è qui rovesciata: il lavoro in sé assume un significato antropologico nel quale la donna che cuce è l’artista stessa fuori da altre mediazioni e la sua azione è progetto. Il cucire è quindi un valore primario perché è una tecnica costruttiva che con piccoli solidi punti struttura e innalza delle forme, siano queste capanne di paglia, ceste, vestiti, sculture.
La donna costruisce i contenitori della vita: orna le lenzuola dove questa si genera e si nasce, decora i fazzoletti dove raccoglierne gli umori e i dolori. Il ricamo è stato per anni un campo esclusivo di espressione al femminile, in certi popoli è stato addirittura un linguaggio segreto, per Kacziba il cucito è una scelta operativa.
Il passaggio di scala dalle opere di piccoli dimensioni a lavori enfatici e monumentali è realizzato sostituendo al filo la corda. Le forme si ingrandiscono e vanno a comporre monumentali cilindri cavi, posati sulla loro base circolare vuota, in equilibrio precario. Questi “totem” instabili terminano in alto con delle sommità in ceramica, smussate ai lati, che si innestano piatte, a concludere la tensione a salire della corda. Tutti insieme questi cilindri, tutti uguali e diversi, compongono un altare, questa volta dedicato alle violenze dell’atto sessuale. La suggestione di forme falliche è evidente anche nelle opere di piccole dimensioni: piccoli peni che si protendono fuori dalle tele quadrate. Lo strumento primo di ricerca dell’appagamento del desiderio, che troppo spesso degenera nel desiderio di possesso, è qui esposto come un grottesco trofeo.
Le sculture falliche sono piramidi improbabili, terrificanti e monumentali ma fragili e vuote, monumenti del maschile che si rivolgono assurdamente contro le donne quando da loro sono stati generati. Le forme di queste sculture, nel contrasto dei colori, quello sabbia della corda e quello rosso nero del fuoco delle ceramiche “raku”, accomunano sempre elementi diversi, altre volte alla corda si oppone il bianco che fa da piano al ricamo, e su cui, come arnie, si incistano queste forme.
In alcuni riquadri gli alveari sono concavi e nel loro fondo contengono un specchio, un cratere in cui cercare un riflesso di sé. Vincente è sempre il colore cangiante delle sue ceramiche anch’esse sposate al colore grezzo della corda.
Kacziba in questa personale si presenta quindi come scultrice con una propria peculiarità di linguaggio che fa del proprio autobiografico diario di donna un racconto, scritto con la punta di un ago.
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2015
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L'iconografia della maternità: da allegoria a emozione
Maria Fratelli
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Andrea s’è persa e non sa più tornare?
Sabino Maria Frassà
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“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.” (Dante)
Anche Andi Kacziba (vero nome Andrea) si è ritrovata qualche anno fa a dover riflettere ancora una volta su di sé, sul tempo che passa e sul contrasto con il mondo che la circonda. Nasce così il progetto Vìola: non si tratta di una semplice mostra, quanto di una tappa fondamentale all’interno del percorso di una donna-artista coraggiosa, che non ha chiuso gli occhi e ha voluto affrontare la crescente dualità e antinomia tra sé (il proprio modo di essere) e il Mondo. Vìola racchiude e cerca quindi di ricomporre la duplicità propria dell’esistenza umana: uomo- donna, violenza-resistenza, morte-vita, bello-brutto. La parola viola del resto è sia un colore sia un verbo. Se ci riferiamo al colore (o allapianta) l’etimologia si rifà al latino viere, intrecciare, essere pieghevole, adattarsi. L’etimologia di vìola (inteso come 3° persona singolare del verbo violare) deriva invece direttamente dalla parola latina vis, forza e violenza.
Andi ricrea nel cuore di Milano, all’interno della cadente chiesa barocca di San Sisto (sede dello Studio Museo Francesco Messina) un giardino segreto in cui poter cogliere il passare del tempo e delle stagioni: dalla morte, alla rinascita, alla vita e poi ancora la morte. Ciò che è secco e senza più vita (ciclo Exsuccus e altare della sterilità) lascia spazio alla rinascita delle Gemmae, alla vita delle Talee, alla distruzione/costruzione dei Termitai.
Il punto di partenza è la constatazione della violenza (non solo fisica) che ci circonda, che permea tutta la nostra società, quella violenza sempre più spettacolarizzata e sempre più rivolta contro le donne e contro tutti coloro i quali sono considerati “diversi”. Nasce così qualche anno fa il primo ciclo di opere di Vìola: Exsuccus. Si tratta di coralli, organi senza più linfa secchi, incapaci non solo di vivere, ma anche di generare altra vita. Il richiamo al tempo che passa, alla dif coltà di essere donna oggi è ancora più chiaro nell’emblematica opera altare della sterilità (composta da Exsuccus): l’umanità si è evoluta, crede di poter esser giovane per sempre, ma il tempo biologico/riproduttivo non si è dilatato.
Andi non si è però persa, sopraffatta dalla violenza, non si è aggrappata a nulla se non a se stessa. All’altare della sterilità ci si reca quindi non per avere un figlio, ma per pensare, per ritrovare il significato di cosa voglia dire essere donna oggi. Il “giardino” di Andi non è infatti un luogo in cui rifugiarsi e fuggire dal mondo. è piuttosto il luogo in cui avere il coraggio di vedere il Mondo per quello che è, così da riuscire poi a ricomporlo e a farlo funzionare meglio. Chi subisce una violenza, per non soccombere, spesso si piega, modifica il proprio essere, no quasi ad annientarsi. Questo “quasi” è la chiave di lettura e di svolta di Vìola. Dall’inevitabile violenza, dall’inalienabile dolore ci si può risollevare e crescere. Andi non elogia la violenza o il dolore, ma ha il coraggio di riconoscerli e affrontarli: la violenza non è mai l’elemento generativo dell’esistenza umana, lo è invece la forza di non piegarsi, di reagire ed essere diversi.
Andi non è quindi tornata indietro, non lo fa mai. Il suo processo di reazione è evidente: da quegli organi senza vita Exsuccus sono nate le Gemmae e poi le Talee. Andi sta rinascendo: come la natura sotto il peso della neve, si è dovuta piegare, adattare ed in ne reinventare, ma non si è spezzata. La stessa tecnica artistica è termometro di tale processo di reazione. Andi ha rinunciato consapevolmente all’istantaneità della fotografia, per (ri)-abbracciare la materia, il tempo della creazione. è così passata dalla bidimensionalità della fotografia e dei fazzoletti ricamati, agli intrecci degli arazzi di Exsuccus, per approdare in fine ad una nuova tecnica, da lei inventata, quella del “filo ricurvo”. Tale tecnica (alla base degli ultimi cicli Gemmae, Talee, Termitai) imita la natura che crea la vita in modo circolare: le opere nascono infatti da un’unica corda che si arrotola su se stessa, che si sorregge grazie ad infinite e quasi invisibili cuciture, che, come le nervature di una foglia, danno nutrimento e forma all’opera finale.
Andi sta sempre più ricomponendo l’antinomia iniziale, vìola con viòla. L’emblematico altare della sterilità rimane l’inizio, il doloroso punto di partenza, ma ora c’è tanto altro: c’è ad esempio la storia di Santa Veronica (emorroissa), emarginata e poi riammessa nella comunità grazie ad un miracolo (Santa) Veronica è in fondo un auto-ritratto, una fotografia che documenta un momento di smarrimento, in cui l’artista cerca in un “miracolo”, in un deus ex machina, la forza di cambiare e andare avanti. Il miracolo Andi invece l’ha trovato in se stessa, nell’amore per l’arte e per lo studio (la conoscenza).
Frutto di questo “auto-miracolo” sono i grandi Termitai, che meglio rappresentano Andi oggi.
Come fanno le termiti per creare i loro grandi nidi, Andi ha imparato che a volte, per creare nuova materia vivente, bisogna partire dalla demolizione, digestione e metabolizzazione di ciò che è stato.